Poetry

Percorsi e parole

Augusto Galli

Dieci anni in poesia

ALTRI MOMENTI

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Quando il tempo si piega per fare spazio a un presente che non vuol finire.

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PER IL GIARDINO

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Pomeriggio e il sentiero

chiude le rose

contro il muro esausto

città che suona, ribolle,

là fuori

là fuori lo scoppio dei motori

l’umanità che soffre , si ribella

non vive di parole, non più,

non sa parlare o non può,

la signora maestra ci racconti

ancora

come la neve dipingeva i tetti delle case

quando la mamma

carezzava paziente i nostri sogni

e la mela era verde

solo allora.

La città che ribolle, il muro

che s’inclina

per colpa delle rose

furibonde.

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CHIAMALE PER NOME

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Ci sono istanti che non puoi fotografare

vivono tra un respiro e l’altro

nascosti nel rumore di una tazza che si posa

o nello sguardo che indugia su un altrove.

Non sono i grandi eventi a restare

ma piccole fenditure di luce

quando smetti di correre.

Sono lì , silenziose

ad aspettare che tu le chiami per nome.

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OLTRE IL VENTO

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Tra radici profonde e cieli aperti

cammino scalzo su strade di pietra

  • ogni passo un graffio

ogni graffio un segno da imparare.

Il vento spinge

non mi spezza

sono albero pronto a sopportare

a danzare dentro la tempesta.

Pioggia amara ho bevuto

pure dal mio vecchio tronco

sono sbocciati fiori che non sapevo di avere

  • qualcosa mi ripete che la forza

non è mancanza di paura

ma coraggio di guardare dentro la vita

e dire: resto.

E quando il sole torna

  • mai lo stesso sole

illumina un me

che non teme più l’ombra.

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DICEMBRE

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Tardi silenzi dell’inverno 
dove il cielo cade di grigio
un filo di luce sfiora i rami
.

il vento racconta storie dimenticate

le foglie, stanche, danzano lente
come ricordi che il tempo non spegne.
E l’acqua del ruscello, sottile e chiara,
riflette sogni di giorni lontani.

Ogni respiro della terra fredda
reca un canto antico, fragile e forte,
nel cuore di chi osserva il mondo
vive un sussurro di eterna speranza.

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QUANDO

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Quando ho incontrato te

il tempo si è fermato come un fiume che trattiene il respiro,

le strade della città hanno smesso di correre

il vento ha piegato la sua voce

per ascoltare il silenzio che ci univa.

Non era un giorno speciale,

non c’erano stelle più luminose del solito,

la luce che portavi negli occhi

ha incendiato il mio orizzonte,

ha sciolto le ombre che mi tenevano prigioniero.

Ho incontrato te

come si incontra un porto dopo tempeste infinite,

come si incontra la parola giusta

dopo una vita di frasi spezzate.

E da allora ogni passo ha avuto un senso,

ogni notte ha avuto un nome,

ogni sogno ha avuto un volto,

quando ho incontrato te!

Quando ho incontrato te

ho capito che l’amore non è un lampo che brucia,

ma un fuoco che cresce piano

che scalda senza consumare

illumina senza accecare.

Ho incontrato te

tra le pieghe di un destino distratto,

tra le pagine di un libro che non pensavo di leggere

tra le note di una musica che non conoscevo.

Eri lì,

come se fossi sempre stata,

come se il mondo avesse atteso quel momento

per ricominciare a respirare.

Da allora, ogni parola che pronuncio

porta il tuo nome

necessario,

ogni silenzio che custodisco

è pieno della tua presenza

di te mi parla.

Se il tempo un giorno ci dividerà

porterò con me l’eco del nostro incontro,

la certezza che almeno una volta ho visto

la vita brillare davvero.

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IL MIO PAESE ANTICO

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Sotto il cielo che sa di polvere e pane

le case si stringono come vecchi compagni,

i tetti raccontano storie di pioggia e di freddo.

Persiane chiuse

custodiscono nomi dimenticati.

Batte lento il cuore della piazza,

con la fontana a contare i passi dei giorni

sedie vuote, chiacchiere sospese tra i muri,

ore come promesse segna il campanile.

Cammino su pietre consumate,

ciascuna l’impronta di un’assenza,

porta il vento profumo di fieno e di caffè,

traversa un gatto l’ombra come un pensiero.

Son mappe di memoria le voci degli anziani

parlano di raccolti, di amori nascosti, di partite a carte

le mani rugose intrecciando i fili del tempo,

con scarpe rotte i bambini rincorrono il sole.

C’è una scala che sale verso il vecchio orto

erbe vi crescono come piccoli miracoli,

una porta socchiusa lascia entrare un raggio

illuminando fotografie ingiallite e ricordi.

Autunno, cadono foglie come lettere

ciascuna un addio.

 Porta l’odore del camino a tavole imbandite

a risate che rimbalzano tra le travi.

La notte avvolge il paese in un manto di stelle

sono lanterne di storie le luci delle case,

il respiro lento della terra che dorme

avvolge il silenzio, diventa una promessa amica.

Quando arriva la festa, tutto s’accende:

 voci, tamburi, suono di fisarmonica,

le mani si cercano, si riconoscono i volti,

per un istante il tempo si ferma a guardare.

Il mio paese non è solo memoria:

è filo che lega passato e presente,

saggezza nascosta nelle crepe dei muri,

promessa che qualcosa rimane, quando tutto cambia.

Cammino ancora, a memoria, ogni passo è un saluto

alla bottega, al forno, alla finestra con geranio,

porto con me il peso dolce delle radici,

la certezza che ovunque vada

 questo luogo mi chiama.

Se chiudo gli occhi ritorna un profilo, un sospiro,

le strade che vanno agli ulivi,

un canto lontano per chi non c’è più.

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NATURA

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Sotto il respiro forte degli alberi
la luce si piega come pensiero amico
foglie che contano il tempo in silenzio,
radici che sanno la mappa del buio.

Un ruscello racconta nomi che non servono,
scioglie le parole in piccoli specchi,
 il vento le raccoglie, le rimette in circolo
come monete di luce.

La pietra conserva la pazienza del mondo,
la sua superficie una storia senza fretta,
sopra, un insetto disegna la sua traiettoria
minima, assoluta, perfetta.

Il cielo si apre a sprazzi, poi richiude
una mano che carezza l’orizzonte.
Nel prato, l’erba si piega e si rialza
ogni filo un atto di fiducia.

Cammino senza orologio, ascolto
il respiro della terra sotto le suole,
capisco che ogni cosa è un invito:
stare, guardare, restare un poco più a lungo.

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STANZA 303

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La stanza 303
non aveva finestre,
solo uno specchio che mentiva
con gentilezza.

Il letto era disfatto
prima ancora che qualcuno ci si sdraiasse.
Le lenzuola sapevano di sogni interrotti
e di corpi che non si sono mai incontrati.

Sul comodino,
una lampada accesa da anni
illuminava solo le cose che volevano essere dimenticate.

Un uomo sedeva sulla sedia,
non per riposare,
ma per ascoltare il rumore del silenzio
che gocciolava dal soffitto.

Aveva una valigia piena di parole non dette,
e ogni notte ne apriva una,
la lasciava camminare per la stanza
finché non si stancava di essere vera.

Il telefono squillava ogni tanto,
ma nessuno rispondeva.
Era solo il passato
che cercava di prenotare un’altra notte.

Sul muro,
una crepa disegnava una mappa
che portava sempre allo stesso punto:
“qui non succede niente,
ma tutto cambia.”

E quando l’alba si dimenticava di arrivare,
la stanza 303
continuava a vivere,
come un cuore che batte
solo per ricordare che esiste.

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LA NOTTE

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La notte è un bar che non chiude mai,

e io ci entro con le tasche vuote

e il cuore che fa finta di essere di ferro.

Il bancone è pieno di gente

che racconta la propria vita

come se qualcuno stesse davvero ascoltando.

Io no,

ma annuisco lo stesso,

perché a volte è l’unica gentilezza rimasta.

Fuori, la città sbuffa come un vecchio stanco,

e ogni lampione sembra dire:

“Non arrenderti, idiota,

non ancora.”

Così cammino,

con le mie piccole miserie

che tintinnano come monete false,

e penso che dopotutto

la bellezza è questo:

continuare a provarci,

anche quando nessuno scommetterebbe un centesimo su di te.

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TEMPO SOSPESO

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Un cielo immaginario si riversa

su piatti di piombo lasciati a raffreddare

sul tavolo del mattino,

scivola senza rumore,

come un gesto che nessuno ha visto compiere.

Un bicchiere opaco trattiene

quel che resta della luce,

la spende lungo il bordo del piccolo sole

in un tremolio che non decide.

Un pianto inossidabile,

lucido, senza fretta,

corre per vie di mezzo,

si infila tra crepe delle strade

che non scelgono mai una direzione.

E in questo andare sospeso,

dove nulla trabocca e nulla si ferma,

il presente si piega appena,

come un ramo sotto il peso dell’aria,

per fare spazio a ciò che ancora non passa

intanto che il carro rotolando

chiude il sipario del giorno imprudente.

Cosa sarà della mia vita?

Passato graffiato di assalti,

ore buttate alle ortiche

per un pugno di sogni.

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ALBERO

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Albero,
ponte d’energia tra presente e passato,
io ti guardo ancora
come si guarda un vecchio amico
che ha visto troppo
e non lo dice.

Da bambino inseguivo l’ombra
che spandevi allegra;
ci cadevo dentro
come in una promessa facile.
Mi mandavi sussurri:
erano storie,
o solo il vento
che fingeva di sapere qualcosa?

Ora ti parlo con la voce
di chi ha imparato a bere la vita
a sorsi storti,
con le nocche più dure
e il cuore che non si lascia lucidare.
Non c’è redenzione,
nemmeno sotto fronde antiche:
solo un uomo che tenta
di non cadere a pezzi.

Eppure,
quando poggio la mano alla corteccia,
sento un battito che non è mio,
una memoria che non chiede nulla
e non giudica.
Forse le storie c’erano davvero,
solo parlavano piano
per non turbare
una spiumata di sole.

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SE, IMPROVVISO…

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Se, improvviso, un pianto straccia il velo
del giorno che avanza,
poi, inatteso, uno spicchio di sole
illumina i panni stesi ad asciugare
e crea ombre profonde
dove prima tutto era piatto ed eguale,
allora capisci che la vita
non ha nessuna intenzione
di lasciarti in pace.

Ti prende per il bavero,
ti scuote come un barista stanco
che vuole chiudere il locale,
e tu lì, con la tua birra calda,
a chiederti perché diavolo
non riesci mai a stare fermo
nel punto esatto in cui sei.

La verità è che ogni giorno
qualcosa si rompe,
qualcosa si aggiusta,
qualcosa ti guarda da lontano
e ti chiede se hai ancora fiato
per restare in piedi.

E tu rispondi come puoi:
con un gesto,
con un rutto,
con una bestemmia,
con un sorriso storto,
non convinci nessuno,
nemmeno te.

Le ombre sui panni
diventano allora una specie di mappa,
geografia inattesa
che ti indica dove sei stato
e dove non tornerai più.
E il sole, quello spicchio misero,
ti ricorda che anche la luce
ha i suoi giorni storti,
ma almeno ci prova,
si infila tra i sussurri,
fa quello che può.

Tu invece inciampi,
ti rialzi,
ti siedi,
ti rialzi di nuovo,
e ogni volta pensi
che forse stavolta
hai capito qualcosa.
Poi arriva un altro pianto,
un’altra ombra,
un altro spicchio di sole,
e ti ritrovi da capo,
come un pugile suonato
che continua a tornare sul ring
solo perché non sa dove andare.

Eppure, in tutto questo casino,
c’è un momento — breve,
quasi impercettibile —
in cui senti che il mondo
ti guarda senza giudicarti.
Un istante in cui il tuo respiro
non pesa,
in cui il passato
non ti rincorre,
in cui il futuro
non ti minaccia.

È lì che vivi davvero.
È lì che capisci
che non serve essere eroi,
né santi,
né poeti.
Basta restare.
Basta non scappare.
Basta guardare le ombre sui panni
e dire:
«Ok, ci sono anche oggi,
fate di me quel che volete.»

E il giorno, per un attimo,
ti crede.

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BALLATA DI UN RAGAZZO QUALUNQUE

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C’era un ragazzo, sì, un ragazzo qualunque,
che teneva in tasca l’inventario dell’universo.
Non un libro, non un elenco,
solo un pugno di cose che brillavano quando nessuno guardava:
due biglie, un pezzo di corda,
e un’idea che non usciva a voce alta.

Diceva: l’infanzia è un magazzino chiuso,
un posto dove la fantasia parla una lingua che poi dimentichi,
e quando provi a tornarci
trovi solo polvere e un cartello storto.

Ma ogni passo che faccio nel presente
è solo il riflesso di un giorno lontano.
Oh, sì, di un giorno lontano.

L’adolescenza arrivò come un cane randagio,
mangiò tutto quello che trovò sul tavolo
e se ne andò senza salutare.
Lasciò graffi sulle porte,
e una musica che non smetteva di suonare
anche quando il giradischi era spento.

E lui capì, tardi come sempre,
che gli anni a venire non sono altro
che una lampada accesa su quelli passati,
riflesso in una pozzanghera,
un modo per dire:
“Non ho capito niente, ma almeno ci ho provato”.

Ma ogni passo che faccio nel presente
è solo il riflesso di un giorno lontano.
Oh, sì, di un giorno lontano.

Ora cammina in una città che non gli appartiene,
con le mani vuote e gli occhi pieni di vento,
e ogni volta che guarda una vetrina
vede il futuro appannato,
come se qualcuno ci avesse soffiato sopra
per cancellare le impronte.

E ride, sì, ride piano,
perché sa che le cose hanno perso la voce,
non parlano più come una volta.
Eppure, ogni tanto,
quando un fischio passa tra i palazzi
con quella sua aria da vecchio ubriaco,
gli sembra di sentire un sussurro,
un richiamo,
qualcosa che dice:

“Non è finita.
Non è mai finita davvero.”

Le cose hanno perso la luce,
 continuo a cercare la voce.
Ogni passo che faccio e respiro
è l’eco di un giorno lontano.
Oh, sì, già tanto lontano.

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